Le nostre scuole fragili

l1040182

Il trentuno ottobre del duemiladue eravamo a scuola.

Ricordo con esattezza che un compagno di classe grosso, alto e parecchio esuberante,  saltava di frequente per far oscillare paurosamente il piano e farci spaventare. Lo fece un paio di volte anche quel giorno. Poi all’improvviso: «Coglione! Ti fermi che si sta muovendo troppo, non lo senti?».

Il mio amico robusto si era già fermato prima che aprissimo la bocca per insultarlo ma il pavimento, l’armadio, le finestre e gli alberi in giardino non smisero di agitarsi rumorosamente. Restammo impietriti, senza far nulla, qualcuno rideva in maniera isterica, altri piangevano. Nessuno si mise sotto il tavolo, nessuno accennò nemmeno a mettersi in sicurezza sotto qualche trave.

Un bidello e un paio di professori uscirono in strada correndo come lepri prima ancora che la scossa fosse finita: primi in tutto l’istituto. Noi restammo seduti come statue per sessanta secondi che sembrarono infiniti; poi ci fu un lento e disordinato affollarsi per le scale, fino a confluire nel giardino già stracolmo di gente.

Il paese era nel caos. Le strade traboccavano di gente impaurita e nervosa, si faceva fatica anche a fare pochi metri in auto.

Tornammo a casa dopo due ore di delirio collettivo in mezzo alla strada. La televisione mostrava immagini spettrali di paesi lesionati (tutti molto vicini) ma l’attenzione era tutta su San Giuliano di Puglia, che a dispetto del nome è in Molise. In mezzo ai tanti scheletri di case rimaste in piedi (anche se inagibili), l’unico edificio crollato era la scuola intitolata a Francesco Jovine. Elementari e medie insieme nello stesso edificio, come capitava spesso nei centri piccoli.

Sotto la scuola morirono ventisette bambini e una maestra. La prima elementare, la classe dei nati nel 1996, scomparve per intero.

Erano passati più di dieci giorni dal terremoto e di scuola ancora non si sentiva parlare. Fuori freddo e pioggia: sembrava un autunno qualsiasi. La mattina aiutavo mio padre alla stalla e il pomeriggio bivaccavo con altra gente seduto sotto un portico. A pochi metri da noi una orribile scritta murale – w il sisma – celebrava lo stato d’eccezione e la chiusura a tempo indeterminato delle scuole.

Gran parte degli edifici scolastici della regione era a rischio. Fu l’inizio di un lungo periodo di stasi che ricordo con particolare inquietudine. Le scuole rimasero chiuse e non si parlava altro che di terremoto, di agibilità, di rischio sismico e di prevenzione. Il paese era (ed è) in una zona di massimo rischio sismico, le cronache locali lo ricordano devastato ciclicamente da terremoti violentissimi.

Comitati di ogni sorta nacquero come funghi per impedire che il migliaio di studenti (dall’asilo agli istituti superiori) rimettesse piede dentro edifici pericolosi. Non ricordo una fase storica altrettanto densa di manifestazioni, assemblee popolari, riunioni, dibattiti, proteste clamorose.

Verso la metà di novembre ci organizzammo per fare scuola autonomamente (con la complicità dell’intero corpo docenti) nei garage e nelle case private. Nonostante il terremoto, il nostro era l’ultimo anno del liceo scientifico e qualcosa all’esame di maturità avremmo dovuto raccontare.

Prima di Natale iniziarono i doppi e i tripli turni nell’unico edificio rimasto praticabile con il debole attestato di “agibilità statica” (gli altri erano lesionati). Tutti gli istituti superiori furono concentrati in un unico stabile: si andava a scuola la mattina, il pomeriggio e la sera con ore da cinquanta minuti per assicurare una frequenza a tutti. Ricordo le settimane invernali con i turni pomeridiani come un incubo: si entrava a scuola che era già quasi buio e si usciva ad ora di cena.

In primavera iniziò per i più piccoli (elementari e medie) la lunga stagione delle baracche, che in qualche luogo non è ancora terminata. Mezza regione era ancora in subbuglio e molte scuole furono trasferite in fatiscenti “casette di legno”.

L’anno scolastico finì con i doppi turni e malgrado i disagi facemmo l’esame di maturità in condizioni tutto sommato accettabili. Poi partimmo per l’università e soltanto pochissimi di noi restarono a studiare in regione.

Oggi le scuole che abbiamo frequentato sono state ricostruite (quasi tutte) con tecniche antisismiche. La sorte cinica e beffarda ha voluto che il mio ex liceo porti, dal 2009, il nome di un caro amico morto da studente nel terremoto dell’Aquila. Si chiamava Elvio Romano e la storia che ho raccontato l’aveva vissuta anche lui insieme a me e a molti altri.

[Questo post è stato scritto con il pensiero rivolto al terremoto che recentemente ha sconvolto il centro Italia. Sono certo che ancora una volta l’Appennino saprà rialzarsi come ha sempre fatto: da nord a sud. Per chi avesse voglia, “La storia siamo noi” si occupò del terremoto del Molise del 2002 con questo documentario. Di Elvio avevo parlato anche qui. La foto iniziale è mia ma col post non c’entra nulla, l’ho scattata dal treno tornando da Pisa in un giorno strano. L’immagine in fondo alla pagina è presa dall’archivio online de «La Stampa». Qui e qui ci sono due belle foto delle “casette di legno” in cui facevano scuola i ragazzini di elementari e medie]

schermata-2016-11-13-alle-17-14-29

14 pensieri su “Le nostre scuole fragili

  1. lo ricordo molto bene…anche perché mio figlio frequentava l’ asilo, ogni giorno e, non ricordo per quanto, l’ansia mi accompagnava sempre…che qui ancora scontiamo il terremoto del 1980.

  2. Difficile trovare delle parole adatte davanti ad eventi simili, si rimane sempre sgomenti. Trovo sia giusto ricordare le vittime, anche quelle degli anni passati, che troppo spesso la gente fa in fretta a dimenticare.

  3. Ricordo quei bambini e chissà come nella mia mente li collocavo lontani nel tempo e invece era ieri. Dieci anni dopo è toccato qui da noi, ma le scuole ressero, poi era maggio. Ci misero un’estate a costruire le nuove e ora mia figlia frequenta ancora quelle che non sono baracche, ma potrebbero… Tutto il resto non lo immaginavo…

Scrivi una risposta a Aldievel Cancella risposta